Il Mal di Schiena
Quando il Dolore è Meccanico
di Claudio Santoro DO DC
di Claudio Santoro DO DC
Il mal di schiena (dolore localizzato nella bassa zona lombare) è tra i disturbi che, soprattutto nel mondo occidentale, sono ritenuti a maggior impatto sociale, talvolta assumendo una notevole importanza non solo dal punto di vista medico, ma anche dal punto di vista socio-economico: agli altissimi costi individuali e sociali (indagini diagnostiche, terapie farmacologiche ovvero fisiche e strumentali, interventi chirurgici, ecc.) infatti, sono sempre da associare le inevitabili riduzioni della produttività, con limitazioni sostanziali nella conduzione delle attività tipiche della quotidianità.
Numerosi sono gli studi prospettici che hanno cercato non solo di identificare quegli elementi in grado di predire episodi di mal di schiena acuto (lombalgia), ma anche di definire la transizione da dolore acuto a dolore cronico ovvero lo sviluppo di condizioni d’invalidità. L’unica conclusione effettiva raggiunta, però, riguarda la sola eziologia, evidentemente legata a fattori molteplici e spesso caratterizzata da:
aumento della rigidità, con conseguenti contratture muscolari che a loro volta ostacolano, ancor di più, il libero movimento;
aumento delle pressioni e perdita potenziale delle funzioni di ammortizzazione svolta dai dischi intervertebrali.
Le condizioni di scarsa mobilità (quando non di vera e propria incapacità motoria) tipiche dell’attuale vissuto quotidiano, costituiscono gli elementi caratterizzanti di quel dolore con associata progressiva perdita di funzione che solo indirettamente può essere riferito alla colonna vertebrale poiché evidentemente in carico alle strutture di sostegno (muscoli e connettivo).
La gravità della condizione di sofferenza strutturale, viene normalmente classificata in relazione ai tempi di permanenza nello stato di alterazione:
La fase acuta ha una durata inferiore a quattro settimane, è caratterizzata da sintomatologia dolorosa intensissima ed altamente invalidante. Riguarda il 75-90% dei pazienti visti in ambulatorio per le cure primarie. Secondo la letteratura, previa idonea cura farmacologica, tenderebbe a migliorare nell’arco di un mese.
La fase subacuta ha una durata che si prolunga dalle quattro settimane ai tre mesi. Riguarda il 25-50% dei pazienti. È una condizione morbosa caratterizzata da una sintomatologia dolorosa discretamente intensa a potenziale rischio di disabilità: nonostante la cura farmacologica, i sintomi minimali permangono, ovvero si riacutizzano nel corso dell’anno a seguire.
La fase cronica ha una durata che si protrae oltre i tre mesi. Riguarda il 6-10% dei pazienti. È caratterizzata da costante sintomatologia, moderatamente dolorosa, ad alta disabilità. In essa la cura farmacologica risulta evidentemente non efficace
Complice inconsapevole di una sedentarietà ormai tipica della quotidianità individuale, il nostro mondo che, volutamente reso piatto, non è più in grado di stimolare quei processi neuromeccanici da cui, anche attraverso la soglia plantare, dipendono equilibrio e stabilità.
In assenza di stimoli adeguati, infatti, non è difficile riscontrare una generale cattiva distribuzione dei carichi sulla soglia plantare con un’apertura podalica asimmetrica e crollo funzionale del calcagno (da cui la pronazione o supinazione del piede). In un processo a cascata non si può far a meno di rilevare condizioni di:
intrarotazione tibiale (con aumento, sugli altri, di volume e tono dei muscoli elevatore lungo delle dita, peronei e tibiale);
valgismo asimmetrico delle ginocchia (con o senza intrarotazione o recurvatum)
alterazione meccano-funzionale del bacino (inclinazione, slittamento, rotazione, antero/retro pulsione) con conseguente adattamento delle curve fisiologiche del rachide (verticalizzazione e scoliosi) e disallineamento delle spalle.
Alterazioni che, al successivo esame palpatorio, consentono di riscontrare una scarsa mobilità specifica (spesso condizionata dalla compromissione funzionale e dalla tolleranza al dolore), rigidità e dolorabilità della porzione laterale della gamba (verosimilmente in carico ai muscoli peroneo lungo, peroneo breve ed elevatore lungo delle dita) ovvero della coscia posteriore (verosimilmente in carico ai muscoli bicipite femorale e vasto laterale) e/o del gluteo (verosimilmente medio gluteo e grande gluteo nel suo decorso inserzionale sacro iliaco).
In parole povere si parla di una “semplice” alterazione della funzione muscolare da cui ha luogo una cattiva gestione della fase motoria. I distretti muscolari maggiormente chiamati in causa nella fase compensativa, sono quelli che maggiormente esprimono la sensazione dolorifica.
Inutile, a questo punto sottolineare l’inadeguatezza dei test considerati specifici per questa tipologia di dolore: parliamo dei più noti LESEGUE, WASSERMAN, VALSAVA, BRAGARD, THOMSEN, YEOMAN, BONNET ed HOOVER. La relativa esecuzione, porta spesso a risultati scarsamente specifici e largamente interpretabili, quindi poco attendibili.
Da un punto di vista meccanico, ovviamente non può che riscontrarsi un cattivo assetto posturale, tale da ingenerare non solo il disallineamento degli assi verticali ma anche la perdita delle curve fisiologiche che contraddistinguono un rachide in salute: venendo meno la capacità (tipica del rachide) di distribuire nelle diverse direzioni dello spazio i carichi agenti sull’intera struttura, ha luogo un aumento dei carichi verticali capace di provocare un inevitabile cedimento dei dischi con forme degenerative che, nei punti di maggiore sollecitazione, sfociano spesso in lesioni (erniazione)…
L’erniazione del disco (al pari di qualunque altra forma di discopatia), di fatto presente su gran parte dei reperti strumentali riferiti al rachide, in virtù di quanto sopra, andrebbe letta sempre non tanto come improbabile causa di dolore quanto, piuttosto, come facile conseguenza di alterazioni meccaniche.
È per sua stessa struttura che l’erniazione non ha la capacità di ingenerare irritazioni o compressioni tali da indurre sensazioni dolorifiche:
l’ernia è costituita da collagene, proteina strutturale che forma una vera e propria impalcatura di sostegno a numerosi tessuti, su tutti cartilagini, epitelio e connettivo. Al collagene tipo II, in particolare, è attribuita la proprietà di indurre la produzione di sostanze in grado di combattere dolore e infiammazione (improbabile quindi determini qualsivoglia forma di irritazione o infiammazione).
Il collagene ha la stessa densità dell’acqua e, considerata l’esigua quantità di sostanza contenuta all’interno del disco, è molto difficile immaginare che in uscita, abbia una capacità compressiva tale da mandare in sofferenza le strutture limitrofe (su tutti radici nervose e midollo spinale, opportunamente protette da una guaina nominata “dura madre”). É più facile invece, vada a colmare gli spazi intratissutali lasciati vuoti, adeguandosi naturalmente alle pareti del “recipiente” chiamato a contenerla.
Quand’anche si volesse ammettere la possibilità di una potenziale irritazione o infiammazione della radice nervosa, bisognerebbe comunque assumere che:
le radici nervose hanno duplice natura (sensitiva e motoria)
le manifestazioni tipiche di una lesione radicolare sono riferite a
perdite o alterazioni della sensibilità lungo la distribuzione dermatomerica (area sensitiva),
manifestazioni tronculari con fascicolazioni e crampi ovvero possibili perdite della capacità motoria ed ipotrofia (area motoria).
Premesso quanto sopra, i dati raccolti presso il Laboratorio di Neurologia Funzionale del Centro Ricerca e Cura di Osteolab (Benevento) su un campione di circa 1200 di pazienti osservati tra il 2006 ed il 2011, con una review condotta su ulteriori 1400 pazienti circa tra il 2012 ed il 2018, hanno consentito di definire che il “mal di schiena” (dolore lombare) si presenta a prevalente matrice meccanica e si sviluppa strutturandosi su due fasi ben distinte:
di preparazione al conflitto, nella quale il tentativo di soddisfare le mutate esigenze meccaniche, genera un sovraccarico funzionale dei tessuti neuromuscolari chiamati al contenimento della caduta. Questa fase è caratterizzata dalla sofferenza della struttura neuro-muscolare emilaterale, in particolare (lato elettivo) della massa comune dei muscoli lombari, del gluteo (gluteo medio su tutto), del bicipite femorale, del vasto laterale e dei peronei con tendenza alla cronicizzazione dello stato di affaticamento ed aumento dei livelli di stress psicofisico, ecc.;
di reazione al conflitto, nella quale vi è il tentativo di riequilibrare le tensioni dovute al mutato rapporto di forze determinato dal sovraccarico funzionale dei tessuti neuromuscolari. Questa fase è caratterizzata da raffreddamento più o meno diffuso nella zona cutanea d’interesse (loggia ileo-sacrale) e rigidità delle strutture tissutali coinvolte (soprattutto gluteo medio, vasto laterale e peronei). In questa fase hanno luogo la verosimile sclerotizzazione del connettivo e l’alterazione del trofismo muscolare, prevalentemente nelle aree della schiena lombare e sacro-iliaca (ove ha luogo l’incapsulamento adesivo dei lipomi presenti, meglio noti come noduli di Copeman o segni di ipotrofia) con interessamento di gluteo medio e inserzioni paravertebrali.
La reazione al conflitto scatena l’insorgenza del “mal di schiena” (dolore in area livello lombare) che, quando non dipendente da patologia conclamata, evolve secondo 3 livelli degenerativi (qualitativi e non quantitativi):
Ogni lombalgia è frutto di un’alterazione della funzione meccanica determinata da una limitazione motoria, scaturita da un conflitto in contro-resistenza (CCR) ovvero un trauma improvviso, inaspettato, gravissimo, che si verifica a livello tendino-muscolare coinvolgendo tutte le strutture impegnate nell’esecuzione di un lavoro, prevalentemente in fase di estensione.
Ogni CCR determina rigidità delle strutture tendino muscolari interessate con una conseguente limitazione funzionale delle giunture articolari (sacro-iliaca, L5-S1, L4-L5).
Ogni limitazione escursionale delle giunture articolari determina a livello vertebrale, una sofferenza del disco (con o senza protrusioni, estrusioni o fenomeni degenerativi) con eventuale riduzione dello spazio intersomatico, possibile costrizione del foramen vertebrale e conseguente potenziale compressione della radice nervosa interessata.
La scelta delle tecniche di volta in volta utilizzate, opportunamente mutuate dalla letteratura osteopatica e/o chiropratica, non può che essere dettata da: condizioni generali (di salute e fisiche) del paziente, sintomi denunciati, alterazioni funzionali registrate, ecc.
Prima di intervenire bisogna sempre considerare che:
le normali indicazioni terapeutiche raccolte secondo prassi ordinaria raccomandano riposo assoluto associato all’assunzione di antinfiammatori non steroidei e, all’uopo, cortisone;
i farmaci assunti non producono effetti poiché il dolore è determinato da causa meccanica (spostamento del baricentro);
l’assenza di movimento intesa come assenza di sollecitazioni meccaniche e tensioni, genera numerosi cambiamenti strutturali (Burke e Evans et al. 1960; Enneking e Horowitz 1972; Akenson et al. 1973, 1980, 1986; Videman, 1986; Hardy, 1989; Jaervinen e Letho, 1993) che, adattivi e difficilmente regredibili, sono rappresentati da:
orientamento disorganizzato di fibre
formazione di aderenze all’interfaccia fibra-fibra (Akeson et al., 1980), otrechè tra tendini e tessuto connettivo circostante con perdita di capacità di scorrimento del tessuto connettivo stesso
proliferazione e sclerotizzazione del tessuto fibrograssoso in area articolare
limitazione della capacità escursionale articolare, erosione delle cartilagini e formazione di osteofiti
le modificazioni strutturali che si verificano durante il periodo di scarso o inidoneo movimento, dipendono dall’entità di riduzione del movimento, dalla durata del relativo periodo, dalla postura adattiva maturata, dalle superfici di contatto, pressioni indotte sulle superfici ed eventuali attriti sulle superfici articolari
Sebbene dolorosa per il paziente e faticosa per il terapista (Ingham, 1981; Woodman e Pare, 1982; Cyriax, 1983; de Bruijn, 1984), la pratica manipolativa può rivelarsi sempre estremamente utile nel trattamento di lesioni acute o croniche.
Un intervento condotto prevalentemente sul piano neuromuscolare, finalizzato non solo a stimolare i meccanocettori per inibire i messaggi afferenti nocicettivi (eliminazione del dolore), ma anche a produrre iperemia meccanica (eventuale aumento della flogosi), così da provocare un effetto vasodilatatorio (Winter, 1968) e facilitare l’eliminazione delle tossine infiammatorie (regola il flusso di substrati e metaboliti). Assunto che le strutture viscoelastiche posseggono la proprietà di scivolamento e isteresi (capacità di reagire ad una stimolazione), l’applicazione di una forza adeguata sfrutta il fenomeno del flusso viscoso relativo alle strutture del tessuto connettivo (AMIS, 1985), orienta le fibre di collagene nel modo più idoneo (aumento delle capacità elastiche tissutali così da meglio resistere ai carichi di natura meccanica) ripristinando la mobilità fisiologica dei tessuti (risoluzione delle aderenze in essere).
La mobilizzazione articolare che segue, sfrutta un arco non doloroso (movimenti lenti e cadenzati con breve permanenza in posizione onde consentire l’orientamento e l’allungamento permanente delle fibre collagene), così da ottenere l’interruzione delle aderenze capsulari. Una manovra di minima ampiezza e massima velocità, sviluppata alla fine dell’arco di movimento, consente lo sblocco dell’articolazione.
Una volta ripristinati, gli equilibri meccano funzionali andrebbero comunque resi stabili. Per ciascun paziente andrebbe elaborato un programma di lavoro teso a correggere la funzione motoria ovvero a colmare quelle “falle di sistema” (squilibri meccanici) da cui si è ingenerato il dolore. I pazienti dovrebbero essere quindi indotti a migliorare e potenziare le capacità di equilibrio e coordinazione motoria, ovvero la capacità di esecuzione di uno specifico gesto motorio quando non le capacità di espressione della forza.
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